Anglicismi, questi (s)conosciuti

Facciamo il punto sull'uso (e abuso) che si fa degli anglicismi nel nostro Paese; non solo snaturano il senso stesso del prestito linguistico ma il loro uso sconsiderato e ingiustificato ha effetti negativi sulla bellezza della comunicazione.

A Brighton per chiedere a qualcuno "Come va?"
Si domanda e si risponde "All right mate"
Se invece una persona ti guarda male,
Ti vorrebbe picchiare dice "All right mate"
In Inghilterra se vuoi avere un conto in banca
Basta solamente dire "All right mate"
E quando invece non hai voglia di parlare
Basta solo che tu dica "All right mate"

Con queste strofe, tratte del brano di Fabri Fibra "Speak English", vogliamo introdurre il discorso sull'utilizzo esagerato (e talvolta fuori luogo) che si fa in Italia dei termini inglesi.
É un rapporto complicato, quello tra l'italiano e l'inglese, che ha attraversato fasi alterne nel corso degli anni. Basti pensare ai noti tentativi, effettuati durante il regime fascista, di trovare parole italiane per sostituire termini inglesi privi di traduzione, portando in alcuni casi a esiti comici; potremmo fare l'esempio della parola cocktail, tradotta forzatamente come "arlecchino".
Anche se certi aperitivi finiscono per essere carnevalate, voglio proprio vedervi a dire agli amici: "Andiamo a farci un arlecchino!"
Ad ogni modo, è interessante notare che molti termini italiani relativi al gioco del calcio si sono affermati durante questa fase nazionalistica; infatti nel periodo precedente lo stesso sport era denominato football e la terminologia del gergo calcistico era molto più ricca di vocaboli inglesi.

Se gli eccessi nazionalistici contro le influenze linguistiche estere possono portare a questo, anche la totale apertura ad esse presenta dei lati oscuri. L'utilizzo delle parole straniere normalmente serve ad arricchire la lingua, introducendo al suo interno termini che non esistono, o che sostituiscono concetti per esprimere i quali sono necessarie più parole. Un esempio potrebbe essere la parola computer, che ha sostituito il termine calcolatore; quest'ultimo era utilizzato fino a quando i computer erano apparecchiature scientifiche ad appannaggio di pochi. Con la diffusione dei computer "domestici", il termine rischiava però di far confondere tale dispositivo con la più comune calcolatrice tascabile.

Questo perché l'italiano, al pari dell'amato/odiato inglese, è una lingua viva e, pertanto, soggetta a continue evoluzioni e trasformazioni diacroniche (che si dipanano, cioè nell'asse temporale) frutto di relazioni e fenomeni socio-culturali, geopolitici e ovviamente linguistici di cui il "prestito" è la definizione che serve a circoscriverla.

Il prestito (o forestierismo) è una parola, una locuzione, una struttura sintattica (o anche un morfema o un fonema) di una qualsiasi lingua straniera che entra di diritto a far parte del lessico comune di un altro sistema linguistico.

Fin qui nulla di strano. Ognuno di noi, nel comune parlare quotidiano, si trova ad utilizzare parole, termini ed espressioni che appartengono ad un’altra lingua: babysitter, weekend, turn over, task force, meeting sono solo alcuni degli esempi più comuni.

Ma che succede, invece, quando dal comune prestito si passa alla vera e propria interferenza linguistica? Qui, scatta l'allarme.
Nell'ultimo decennio, il numero di anglicismi importati ha superato pericolosamente i livelli di guardia, insinuandosi nelle nostre abitudini con una frequenza d'uso che ha invaso non solo le nostre conversazioni professionali (dove abbondano frasi del tipo "oggi sono full, fai un check sul mio calendar e verifica se ci sono slot liberi così mandi un'invitation") ma, ahinoi, anche quelle private; con quante più parole inglesi farcisco il mio dire, tanto più dimostro la mia padronanza e competenza linguistica.

Nulla di più illusorio, però! Non c'è nulla che dimostri questa associazione, anzi, l'ossessione dell'anglofilia verbale è figlia di un'inconscia malia dell'esotico che, partendo dalla sempre eccitata lingua della comunicazione di massa, passando per le follie delle agenzie pubblicitarie e il campanilistico mondo degli sviluppatori informatici, arriva fino al nostro quotidiano; ed ecco che, per sentirci all'altezza di chissà quale standard immotivato, ci avveleniamo i discorsi rimpinzandoli di inutili inestetismi inglesi dei quali potremmo tranquillamente fare a meno.

Parliamo di parole che potrebbero essere dette in italiano ma, invece, vengono espresse in inglese per dare una maggiore enfasi al termine, o perché considerato più tecnico, più specifico, più attuale: performance invece che prestazione, esecuzione; governance invece che direzione; mission invece di scopo, obiettivo; accountant invece che contabile sono solo alcuni dei numerosi esempi che potremmo elencare.

Last but not the least (qui l'inglese è voluto) è l'abominio della "derivazione per fusione": termini in inglese che, nel cambiare categoria grammaticale (perlopiù si assiste ad un passaggio da sostantivo a verbo), acquisiscono le regole morfosintattiche dell'italiano generando dei mostri a doppia testa difficilissimi da distruggere.
Ne vediamo proliferare in ogni dove (con grande confusione anche sul corretto modo di scriverle); stiamo parlando di parole come "googlare, whatsappare, sharare, spammare, briffare, fashionista ecc. (quanti ne sono venuti in mente anche a voi solo ora?) che rappresentano l'apoteosi del melting pot verbale portato alle estreme conseguenze.

Sia chiaro che il disagio qui espresso non è dovuto a nessuna forma di anglofobia o autarchia linguistica; questo articolo vuole solo essere un campanello d'allarme da parte di chi apprezza le commistioni linguistiche di un altro idioma, a patto che "il forestierismo" non venga usato fuori contesto, in modo inappropriato o peggio, senza una vera necessità. A meno che non si consideri tale quella di sfoggiare una competenza terminologica solo apparente, che invece strizza l'occhio ad una vera e propria maleducazione linguistica.

Perché le parole sono importanti.

“Le parole sono fatte prima che per essere dette, per essere capite:
Proprio per questo , diceva un filosofo, gli dei ci hanno dato una lingua e due orecchie.
Chi non si fa capire viola la libertà di parola dei suoi ascoltatori.
È un maleducato, se parla in privato e da privato.
È qualcosa di peggio se è un giornalista , un insegnante, un dipendente pubblico, un eletto dal popolo.
Chi è al servizio di un pubblico ha il dovere costituzionale di farsi capire.”
Tullio De Mauro