Fake news: l'industria della disinformazione
C'è un'attività che non ha sofferto per niente a causa della pandemia: la produzione di fake news, che sembra anzi averne giovato. Ma cosa si nasconde dietro alle "bufale" che imperversano sul web?
Diciamo la verità: chi non c'è mai cascato? Che siano goliardate nate sui social con il solo scopo di vedere quanti abboccano o notizie false fabbricate e diffuse ad arte per colpire qualcuno, le fake news sono davvero insidiose. Lo dimostra il fatto che anche le testate giornalistiche più rodate in qualche caso le pubblicano.
Per quale motivo siamo portati a dar credito alle "bufale"? Difficile trovare una risposta definitiva. Forse ci rende vulnerabili il desiderio di avere certezze; quando siamo di fronte a una situazione piena d'incognite e dominata dal caso, la nostra razionalità si ribella ed esige dei punti fermi. Ed è qui che il fabbricante di fake viene incontro ai nostri desideri, fornendoci le risposte che vorremmo. Ignoro se per le altre culture sia differente, ma per noi occidentali ogni avvenimento deve avere una causa, una motivazione o un colpevole; il semplice ruolo del caso è del tutto inaccettabile.
In buona sostanza, tutto gira attorno alla vecchia legge economica della domanda e dell'offerta: il nostro desiderio di certezze crea la domanda, lo spacciatore di bufale risponde con l'offerta. Al crescere della domanda aumenta anche l'offerta. Tutto semplice fin qui; ma che cosa ci va a guadagnare chi diffonde fake news?
Per alcune tipologie di fake è presto detto: creare un post dai toni sensazionalistici, che possa diventare virale su internet, serve a guadagnare visualizzazioni e ad aumentare i relativi introiti dovuti alla pubblicità. E non è neppure necessario che la notizia falsa sia fabbricata al momento; in certi casi basta modificare qualcosa che già c'è per adattarlo alla situazione.
Il video dei delfini nel porto è il tipico caso in cui un filmato, di per sé innocente, può fornire la base di una notizia falsa da rendere virale. In questo caso si sono alterate l'ubicazione e la data delle riprese: i delfini infatti si trovavano in un luogo diverso da quello indicato, e le immagini risalgono a qualche anno fa. L'abilità principale di chi ha diffuso il fake è stata la scelta del momento giusto; costretto a casa dalle norme di isolamento sociale, il pubblico voleva qualcosa di rassicurante, qualcosa che dicesse: "la vita continua!". Chi invece sostiene che il vero "virus" sia la razza umana, con questo video vede confermato il suo di punto di vista (leggete i commenti al filmato).
Tutto sommato le bufale degli animali in città o delle piramidi innevate sembrano essere delle burle innocenti, l'unico interesse che vi sta dietro è quello di guadagnare tramite la pubblicità. Preoccupa, tuttavia, che notizie false così semplici e facili da smascherare riescano a trarre in inganno anche testate giornalistiche importanti. Il rischio che le fake news possano inquinare il settore dell'informazione è infatti molto alto, e segnali d'allarme in tal senso sono stati lanciati più volte. Riporto un estratto da un articolo del Sole 24 ORE del 16/03/2019, relativo a uno studio sulle modalità di diffusione delle notizie false:
In media, una storia completamente inventata raggiunge i primi 1500 utenti a una velocità sei volte maggiore di una news vera. Come hanno scoperto i ricercatori del Mit, una “fake” ha il 70% di probabilità in più di essere retwittata di una “true”. Di più: quando si considerano le cosiddette “cascate” di Twitter, ossia le catene di condivisioni ininterrotte, in pratica quindi la “profondità” di penetrazione del tweet all’interno del social, le falsità sono dalle dieci alle venti volte più veloci delle verità.
Lo studio, svolto dal Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston in collaborazione col social network Twitter, giunge a conclusioni estremamente pessimistiche: nelle dinamiche dei social il falso vince sempre sul vero.
La facilità con cui le bufale si fanno strada è causata in parte dall'enorme mole di notizie che il settore dell'informazione deve vagliare quotidianamente. Nel giornalismo la rapidità è spesso fondamentale e, per evitare la lentezza imposta da controlli più capillari, nel verificare le informazioni si concentra l'attenzione sui settori ritenuti più sensibili: la politica, l'economia o la salute.
Ma c'è un altro aspetto che influisce sulla facilità con cui qualsiasi informazione riesce a farsi strada: il tipo di linguaggio con cui viene narrata. Viviamo in una realtà dove si avverte la mancanza di un linguaggio comune, nella quale ognuno parla la lingua del suo mestiere con gente del suo stesso mestiere. Ogni settore professionale si esprime infatti con una serie di tecnicismi, acronimi e anglicismi incomprensibili ai "profani" e allo stesso tempo ignora il gergo usato negli altri settori. Un eccesso di settorialità nel linguaggio forse può spiegare l'enfasi che si pone su determinati concetti chiave; ad esempio parole come "resilienza", usate pochissimo al di fuori di determinati settori tecnologici, vengono ripetute a pappagallo senza spiegarne il significato. Chi è abituato a un certo tipo di linguaggio, finisce per prestare ascolto più facilmente a chi usa lo stesso modo di esprimersi.
Tutto questo forse può spiegare una certa diffidenza che si è venuta a creare verso la scienza, un settore dove i paroloni abbondano ed è estremante importante capirne il corretto significato. Come ci si può fidare di chi parla una lingua sconosciuta e pretende di indicare il cammino da seguire? La diffidenza verso il modo di esprimersi della scienza può portare ad abbracciare le cosiddette "pseudoscienze", che non poggiano su alcun metodo di ricerca affidabile ma si esprimono con un linguaggio più accattivante. In questo ambito sono diventati celebri alcuni casi, come quello del Metodo Stamina: nel 2013 la pressione dell'opinione pubblica, conquistata dalle strategie comunicative di Davide Vannoni, spinse il parlamento italiano ad avviare la sperimentazione di un metodo che di scientifico aveva ben poco e che in pratica era una vera e propria bufala.
In ambito politico, la disinformazione è da sempre alla base di intricati giochi di potere. In questo campo è più difficile smascherare le fake news, in quanto vengono avvallate dalle istituzioni e possono essere alla base dell'azione legislativa o di importanti scelte geopolitiche. Pensiamo ad esempio al famoso discorso di Colin Powell al Consiglio di sicurezza dell'ONU del 5 febbraio 2003. Le accuse che Powell rivolse all'Iraq di Saddam Hussein, alla base della decisione statunitense di entrare in guerra, si riveleranno false soltanto al termine del conflitto. Tra le "prove" fornite al Consiglio di Sicurezza vi erano delle immagini di veicoli attrezzati come fabbriche mobili di armi biologiche: mezzi che esistevano soltanto nella fantasia di Rafid Ahmed Alwan al-Janabi (alias Curveball), rifugiato iracheno in Germania e informatore dell'intelligence, che con la sua fake contribuì alla decisione di attaccare. Questo è un classico caso in cui è più difficile credere alla realtà che alla bufala: ve lo immaginavate Saddam Hussein a fare il bravo ragazzo e non produrre armi di distruzione di massa?
Il segreto della fake politica sta proprio nel diffonderla in un contesto dove appare più credibile della stessa verità; dove esiste un pregiudizio verso qualcosa o qualcuno, si fa leva su quello. Alcune memorabili bufale sono sopravvissute addirittura ai loro ideatori, come quella dei Protocolli dei Savi di Sion: la pubblicazione, ideata dall'Ochrana (la polizia segreta degli zar), doveva servire a istigare sentimenti antisemiti nella Russia d'inizio '900 sostenendo l'esistenza di una cospirazione ebraica volta al dominio del mondo. Nonostante la sua natura di falso fosse dimostrata poco dopo la pubblicazione, l'opera continuò a circolare tra i gruppi antisemiti in varie parti del globo, sopravvivendo al crollo dell'impero degli zar e risultando attualmente tra le pubblicazioni dei gruppi fondamentalisti islamici.