Il Gioco delle imitazioni
Il test di Turing in chiave moderna
“Se fai le cose per bene, nessuno sospetterà che tu abbia fatto davvero qualcosa” Cit. Dio
In un episodio della serie animata "Futurama", creata da Matt Groening e David X. Cohen, intitolato "Bender e Dio", si suggerisce l’idea che "se un'azione viene eseguita perfettamente, nessuno si accorgerà che sia successo veramente qualcosa" attraverso un dialogo tra un Dio in forma di “Galassia binaria” e Bender, un robot dotato di intelligenza artificiale.
In quella puntata, Dio gioca al “gioco dell’imitazione”, con riferimento all'omonimo film [1] con Benedict Cumberbatch nel ruolo del matematico e crittoanalista Alan Turing.
Il concetto che viene espresso dal gioco si focalizza sulla capacità di mascherare un'azione deliberata dietro un evento che sembra avvenire per puro caso, simile all'agire di un Dio che aspira a restare nascosto o, in ogni caso, distante dalle tribolazioni umane, seguendo l'esempio degli dèi dell'antichità greca.
In sostanza si tratta, appunto, di un gioco di imitazione: assumere un ruolo con tale naturalezza da far credere a chi osserva che gli avvenimenti si siano svolti in maniera completamente autonoma, senza alcuna interferenza esterna.
Ecco la vera essenza del TEST di TURING: non è mettere alla prova una AI per vedere se si comporta come essere umano ma è un test ad un algoritmo, per sondare la sua capacità di mimetizzarsi nella casualità fino a dare l’impressione di non esistere.
In cosa consiste dunque il test di Turing?
Proposto da Alan Turing nel 1950, è una procedura per determinare se una macchina può dimostrare un'intelligenza simile a quella umana.
Il test si basa sul gioco delle imitazioni, dove un giudice umano interagisce tramite una tastiera e uno schermo con due partecipanti nascosti: un uomo e una donna. Il giudice conversa con entrambi, tramite messaggi scritti, cercando di indovinarne il genere la maggior parte delle volte, basandosi sulle loro risposte.
Turing presuppone che un computer o un algoritmo possa sostituirsi segretamente ad uno dei due.
Se la frequenza con cui il giudice riesce a distinguere tra l'uomo e la donna rimane invariata sia prima che dopo la sostituzione, si dovrebbe ritenere l'algoritmo dotato di intelligenza. Ciò perché, in tale scenario, l'algoritmo avrebbe interpretato il ruolo in modo talmente naturale da lasciar intendere all’ osservatore che non sia cambiato nulla.
Il paradosso degli algoritmi e della casualità intrinsecamente umana
Gli algoritmi che generano casualità, ad oggi, non esistono. Tutto al più, è possibile simularla mediante la generazione da parte delle macchine, di numeri pseudo-casuali che hanno la proprietà di essere casuali se presi “non troppo alla volta”.
Questi numeri sono prodotti da algoritmi deterministici, il che significa che, date le stesse condizioni iniziali (ad esempio, lo stesso "seme"), produrranno la stessa sequenza di numeri ogni volta.
Sebbene questi numeri non siano veramente casuali in senso matematico, possono essere sufficientemente imprevedibili per molti utilizzi pratici.
Perché la casualità gioca un ruolo fondamentale?
Nel contesto dell'intelligenza artificiale, la capacità di generare casualità è fondamentale se ci si vuole avvicinare a simulare l’intelligenza umana.
Per esempio, Le decisioni umane sono spesso influenzate da fattori casuali o da giudizi istintivi che possono sembrare solo arbitrari dall'esterno.
La casualità gioca un ruolo chiave nella creazione di contenuti creativi, come testi, immagini o musica. Le conversazioni e le interazioni sociali sono caratterizzate da una grande variabilità e imprevedibilità. La casualità nelle risposte e nei comportamenti contribuisce alla naturalezza e all'autenticità delle interazioni, riflettendo la complessità dell'intelligenza sociale.
In sintesi, la casualità è un elemento imprescindibile per rendere l'intelligenza artificiale più simile all'intelligenza umana in termini di flessibilità, adattabilità e capacità di gestire l'incertezza. Permette ai sistemi di IA di imitare meglio la complessità e la profondità del pensiero e del comportamento umani, rendendoli più efficaci in un'ampia gamma di applicazioni.
Il test di Turing consente di riconoscere dunque se un algoritmo è in grado di mimetizzarsi fino dare l’impressione di non esistere?
Nella comunità scientifica ad oggi è in corso un acceso dibattito che di fatto, vede contrapposti pensieri contrastanti.
Sicuramente, il test che esiste da più di 70 anni, ha dato un deciso contributo nella ricerca e sviluppo dell’intelligenza artificiale. Inoltre, ha fornito degli elementi fondamentali alla valutazione della capacità di una macchina di imitare il comportamento umano.
Alcuni ricercatori però, sostengono che il test misuri solo la capacità di un algoritmo di imitare la conversazione umana e che sia più simile ad un gioco che dice se un computer può imitare un umano nel parlare ma non specifica se il computer è veramente intelligente o capisce quello che dice.
A mio parere, per mettere d’accordo la comunità scientifica basterebbe apportare delle migliorie al test di Turing per svecchiarlo di qualche decennio.
Introdurre nelle conversazioni domande che richiedono pensiero critico, creatività o comprensione emotiva potrebbe essere un primo passo; si riuscirebbero ad individuare facilmente quegli algoritmi che sono istruiti solo per imitare il pensiero umano senza avere la capacità di ricrearlo.
Il giorno in cui il test di Turing sarà superato, potremmo ragionevolmente avere la conferma che “se si fanno le cose per bene, nessuno sospetterà che siano state fatte per davvero”.
Non è però oggi quel giorno.
[1] The Imitation Game, Morten Tyldum, USA GB e Francia, 2014.