La crittografia nell'antichità

La crittografia non è una cosa recente: anche in epoche più antiche vi erano sistemi per comunicare in modo sicuro.

Il bisogno di comunicare in modo sicuro nasce in contemporanea al diffondersi della scrittura; dal momento in cui un messaggio può essere trascritto e compreso da più persone, corre il rischio di venir letto da quella sbagliata.

Sono noti diversi sistemi utilizzati nell'antichità per impedire la lettura di un messaggio a chiunque non fosse il suo destinatario. Molti di questi si basavano sull’occultamento, per esempio scrivendo il testo segreto su una tavoletta di argilla e ricoprendola poi con della cera fusa; solidificatasi questa, vi si scriveva sopra un testo del tutto innocuo, dando l'idea che fosse quello reale. Si tratta però di sistemi dove la segretezza della comunicazione poteva venir messa a rischio da alcune circostanze casuali. Nel nostro caso l’esposizione della tavoletta a temperature elevate poteva far sciogliere la cera con risultati facilmente immaginabili.

Rappresentazione di una scitala

Un metodo più ingegnoso è quello denominato “scitala” (o scitale, dal termine greco skytale = bastone) utilizzato in Grecia attorno al IV secolo a.c., la cui descrizione ci viene fornita in modo molto accurato da Plutarco; lo scrittore greco narra di come gli efori di Sparta lo utilizzassero per inviare messaggi cifrati ai comandanti militari in tempo di guerra. La scitala si compone di due bastoncini, entrambi di identico diametro e lunghezza; uno di questi viene utilizzato dal mittente per la trascrizione del messaggio, mentre l’altro è in possesso del destinatario e serve per la decodifica. Il mittente per prima cosa avvolge una striscia di papiro lunga e sottile sul suo bastone, facendo in modo che le spire siano perfettamente affiancate e non si sovrappongano, poi trascrive il messaggio nel senso della lunghezza, tracciando su ogni spira una singola lettera. Una volta giunto all’estremità, continua a scrivere il testo ruotando il bastoncino e ricominciando dalla prima spira.

Il testo così ottenuto, senza spazi tra una parola e l’altra, viene srotolato e affidato a un messaggero per la consegna; per poterlo leggere, il destinatario lo dovrà riavvolgere sul proprio bastoncino e le lettere avranno senso.

La sicurezza della scitala sta nel fatto che il testo, pur non essendo occultato, è del tutto incomprensibile a chiunque non sia in possesso di un bastoncino con l’identica lunghezza e diametro di quello del mittente. Si tratta pertanto di un vero e proprio sistema crittografico.

Un certo numero di storici mette in dubbio questo utilizzo della scitala, ritenendola unicamente uno strumento per consegnare messaggi in chiaro (lasciati avvolti sul bastoncino). La limitazione più grande di un sistema di comunicazione segreta del genere sarebbe stata indubbiamente la facilità con cui il papiro poteva rompersi.

Qualche secolo più tardi Polibio inventò un sistema per comunicare a distanza tramite l’uso di torce: la scacchiera di Polibio (detta anche quadrato di Polibio). Questo metodo sarà alla base di molti sistemi crittografici implementati anche in epoche più recenti.

La scacchiera originale era composta da 25 caselle; in ognuna di queste vi era una lettera dell’alfabeto greco, mentre in capo a ogni riga e colonna un numero indice forniva delle coordinate numeriche alle lettere.

La scacchiera di Polibio nella sua versione classica

Il messaggio veniva inviato utilizzando le coordinate numeriche corrispondenti a ogni lettera: per esempio la lettera A era rappresentata dalle coordinate (1-1). Per trasmettere messaggi a distanza con il sistema di Polibio, un uomo dietro a un riparo, con cinque torce alla sua sinistra e altrettante alla sua destra, avrebbe dovuto alzare al di sopra del riparo, per renderle visibili, un numero di torce alla sua sinistra pari al numero di riga e fare lo stesso con quelle alla sua destra per indicare il numero di colonna; si trattava in buona sostanza di una sorta di telegrafo ottico.

Dal punto di vista della sicurezza, la scacchiera di Polibio non è molto valida per comunicazioni riservate, tuttavia si presta facilmente ad alcune modifiche che ne migliorano significativamente l'efficacia in questo ambito, per esempio utilizzandola con una chiave.

L’utilizzo della chiave di cifratura sta alla base di un sistema che prende il nome dal suo utilizzatore più conosciuto: il cifrario di Cesare.

Secondo quanto riporta Svetonio, Giulio Cesare per la sua corrispondenza riservata era solito ricorrere alla cifratura, scambiando le lettere del testo con quelle di tre posizioni a sinistra nell’alfabeto; in pratica scriveva D al posto di A, utilizzando una cifratura a chiave 3.

Schema del cifrario utilizzato da Giulio Cesare

Questo tipo di codice cifrato, per quanto banale, fu particolarmente utile all’epoca delle campagne miliari di Cesare in Gallia, poiché i suoi nemici non erano in grado di decifrarlo (molti di loro del resto non erano neppure capaci di leggere un testo latino in chiaro).

Prima di essere usato da Cesare, il sistema era sicuramente già conosciuto da tempo, si tratta del resto di un metodo semplice e intuitivo, basato unicamente sullo spostamento a destra o a sinistra nell’alfabeto di un certo numero di lettere.

Un ulteriore esempio di questo cifrario, sempre a quanto riporta Svetonio, venne utilizzato dal nipote di Giulio Cesare, Ottaviano Augusto: nel suo caso con chiave 1 (B al posto di A), ma senza ripartire da sinistra giunto alla Z, che veniva codificata con una doppia A.

I cifrari semplici come quelli appena visti sono piuttosto facili da decodificare tramite l’analisi delle frequenze delle lettere. Già attorno all’anno 1000 lo studioso arabo Al-Kindi descrisse un metodo per decifrare i messaggi in codice tenendo conto del numero di volte in cui determinate lettere compaiono nel testo. Da allora nessuno di questi cifrari è stato più sicuro; tuttavia questo tipo di codice può essere visto come la base da cui si sono evoluti i cifrari più complessi utilizzati fino ai giorni nostri.