Riflessioni sparse intorno al legame sempre più inscindibile tra filosofia, tecnologia e management

Una conversazione con il Tech Philosopher Cosimo Accoto

Paragonare l’odierna attività filosofica alle inquietudini solitarie dei futuri esploratori interplanetari, spalanca lo sguardo sulle profonde vertigini speculative di coloro che si stanno già arrischiando a decostruire la geografia algoritmica del nostro nuovo mondo digitale. Pertanto, la trasfigurazione della vecchia realtà analogica, a seguito della pervasiva estensione dello spazio cibernetico in ogni settore della vita economica, politica e sociale, impone l’urgenza di reclutare filosofi capaci di rieducarci a pensare anche attraverso i linguaggi alieni dell’automazione. Navigando dunque in direzione delle grandi costellazioni disciplinari che orientano il nostro cammino nella scoperta di un misterioso universo concettuale, incontriamo Cosimo Accoto, saggista, business innovation advisor e research affiliate presso il Massachussetts Institute of Technology.

Sapresti tracciare una rotta evolutiva ideale che collega la tua formazione filosofica iniziale alla consulenza strategica di management, esperienza dalla quale, a tua volta, avrai sicuramente tratto ispirazione per cominciare una ricognizione pionieristica tesa a sondare filosoficamente tutte le tecnologie emergenti, come il codice software, la blockchain, l’intelligenza artificiale, la scienza dei dati e la cybersicurezza?

Sono un filosofo di formazione cresciuto professionalmente nell’industria dei dati/software (come data business director) e nella consulenza strategica di management (come strategy innovation partner). Per me la ricerca è sempre stata una sorta di seconda pelle che correva sotterranea al mio percorso professionale. Tracciando oggi a ritroso il percorso fatto, direi che sin da subito a partire dall’esercizio quotidiano del mio essere manager impegnato sulle tecnologie emergenti era emersa la necessità di leggere culturalmente e filosoficamente la materia tecnica. Mi sono reso conto che occorreva accompagnare la trasformazione tecnologica (all’epoca era il web) con lo sguardo sulle nuove ontologie che si venivano producendo. Faccio un esempio. Dovendo spiegare a imprese e clienti le tecniche di instrumentazione delle “pagine” web per la loro misurazione (browser-based e non più server-based), era importante spiegare che nel web il concetto di pagina non era paragonabile al concetto di pagina dei media tradizionali. Occorreva spiegare che la pagina web non “esiste” nello stesso modo in cui esiste la pagina cartacea. Che avevano lo stesso nome, ma la sostanza (la loro ontologia) era profondamente diversa. La prima è un oggetto digitale “evocato” e si compone nel momento in cui il browser la richiede assemblando risorse varie che risiedono in rete in posti diversi. Non esiste in quella forma da nessuna parte. È completamente diversa la sua ontologia da quella di una pagina cartacea. Questa necessità di comprensione culturale e strategica di questi cambiamenti si è accentuata con l’altra esperienza professionale, quella consulenziale. Anche qui le imprese avevano e hanno necessità di sguardi filosofici che sappiamo mappare concettualmente le trasformazioni in atto al di là delle tecnicalità coinvolte (spesso molto complesse già di per sé). Ti faccio un altro esempio. La blockchain è presentata spesso fenomenologicamente come un registro distribuito, immodificabile, sicuro e alla pari delle transazioni economiche umane (a partire dagli scambi monetari dei bitcoin nella forma tecnica di UTXO). Ma queste tecnicalità - come le funzioni di hash, gli alberi di Merkle, le primitive crittografiche e così via (che il filosofo contemporaneo dovrebbe saper padroneggiare) - nascondono il concetto profondo che con la blockchain siamo di fronte ad un’innovazione “istituzionale” e non meramente “tecnologica”. Cambia il modo con cui orchestriamo le interazioni socioeconomiche umane. Non cambia cosa produciamo, ma cambia principalmente il come. Di queste prospettive filosofico-culturali che io definisco phil-tech aziende e manager hanno necessità strategica. Non a caso si dice che la cultura si mangia la strategia a colazione. O ancora, pensiamo alla cybersicurezza. Se non comprendiamo che oggi è il mondo la superficie e l’abisso dell’attacco informatico (e non solo le reti dei computer come si diceva un tempo) non comprendiamo la capacità culturale decostruttiva di un’intrusione software malevola. Che è operazione criminale o di guerra tanto quanto operazione filosofica decostruttiva. Se la programmazione è la nuova scrittura vivente del mondo, l’attacco informatico nelle sue varie forme è la sua decostruzione. Svela come è costruita la società digitale, i suoi fondamenti, i suoi limiti e le sue vulnerabilità.

Potresti fornire qualche anticipazione riguardo alla tua prossima fatica editoriale?

Idealmente dopo il primo saggio dedicato alla “filosofia della programmazione” (Il mondo dato, Egea 2017) col tempo ho visto comporsi quasi spontaneamente una potenziale trilogia. Il secondo passaggio è stato un libro sulla “filosofia dell’automazione” (Il mondo ex machina, Egea 2019). Il terzo volume continuerà il percorso phil-tech teso a osservare con orientamento filosofico le tecnologie di frontiera. Il lavoro prefigurativo dei miei "tre studi sull'acculturazione digitale" sta per compiersi. Come un trittico pittorico, si completerà così la visione del nostro reale. Si tratta ancora una volta di esplorazioni arrischiate tra tecnologia, filosofia, economia e mondo. Non posso ancora svelare interamente il nuovo fil rouge perché è un’investigazione in corso e come tutte le incursioni arrischiate non so bene cosa troverò in queste nuove terre incognite. E se sopravvivrò alle incursioni speculative dentro cui sono ora immerso. Sicuramente è un mio tratto andare in territori che vengono considerati difficili, oscuri e complessi tecnologicamente. In cui i più non amano avventurarsi per pigrizia o paura. Ma per darti in anteprima delle anticipazioni, posso dirti che insieme a molto altro ci saranno sicuramente due ambiti che nei due saggi precedenti non sono stati toccati e che richiedono un approfondimento filosofico. Parlo di computazione quantistica e biologia sintetica. Sono ambiti in fortissima ascesa internazionalmente. Il mondo dei qubit e quello del biotech. C’è molto hype anche naturalmente, ma mi piacerebbe riuscire a cogliere gli aspetti chiave di due rivoluzioni che non sono solo tecnologiche, ma di cambio di paradigma nei rispettivi domini. Si stanno progettando “macchine viventi” e “macchine quantistiche” ed è importante gettare uno sguardo cultural-filosofico. Per queste due rivoluzioni, siamo nella fase del passaggio da scienza a ingegneria. Da scoperta e innovazione scientifica si apprestano a diventare soluzioni ingegneristiche. Il che vuol dire lasciare laboratori e circoli ristretti ad accademici e ricercatori e cominciare a entrare nelle vite professionali e personali di molti. E non solo. Si intrecciano anche qui questioni di ontologia (cos’è il reale? cos’è il vivente?), ma anche di responsabilità rispetto a sviluppi tecnologici arrischiati e vulnerabili. La questione della responsabilità attraversa e interessa il discorso filosofico da tempo. Oggi sempre più si intreccia alle rivoluzioni tecnologiche che stiamo vivendo. Di più, direi. Queste ultime -e tra queste ad esempio gli sviluppi della biologia sintetica- impongono proprio un ripensamento dei più tradizionali e consolidati orizzonti di pensiero. Dalla responsabilità individuale nel presente del soggetto agente di Max Weber all’apertura alla dimensione della responsabilità del futuro e planetaria di Hans Jonas, per citare tra i molti due momenti recenti nella concettualizzazione della responsabilità, il pensiero filosofico ha dovuto affrontare ogni volta e nuovamente l’analisi di un concetto estremamente rilevante e distintivo per l’agire umano. Essere responsabili per quanto progettiamo e costruiamo. Si tratta, allora, di aggiornare le riflessioni per comprendere anche gli orizzonti biotecnologici ad esempio e le vulnerabilità connesse alla riscrittura biotecnica della vita.

La Data-Driven Company è la configurazione paradigmatica di un nuovo tipo di azienda capace di fondare sulla pura evidenza quantitativa la maggior parte dei propri processi decisionali. L’adesione acritica e per certi versi inevitabile a tale modello, può incentivare l’elaborazione di una vera e propria concezione oracolare del dato, secondo la quale quest’ultimo è in grado di restituire responsi illuminanti esclusivamente nella misura in cui consegue volumi sovraumani. Purtroppo, se come sottolinea l’antropologa Tricia Wang nel corso di un popolare Ted Talk, oltre il 73% dei progetti aziendali realizzati con i big data non rispecchiano le aspettative iniziali, risulta palese che il semplice possesso di un’immensa quantità di dati non costituisce un requisito necessario e sufficiente per prendere decisioni migliori. Per spiegare perché una certa tipologia di cliente predilige un determinato prodotto/servizio, o quali sono le motivazioni e i fattori emozionali più profondi che si celano dietro l’emergenza di nuove tendenze, servono “dati spessi” (thick data), informazioni contestuali e qualitative, ricavabili attraverso gli approcci esplorativi delle discipline che hanno come oggetto di studio l’essere umano. Di conseguenza, l’integrazione tra big data e thick data sembrerebbe l’unica via percorribile, al fine di ottenere una visione completa della realtà che si sta analizzando. Alcuni segnali di questo orientamento sono già rilevabili in diverse iniziative accademiche e imprenditoriali. Alla London Interdisciplinary School viene erogato un unico corso di laurea triennale, dove l’apprendimento trasversale delle scienze naturali, della tecnologia, dell’arte, del design, delle scienze sociali e delle discipline umanistiche, prepara professionisti qualificati per risolvere i problemi più difficili e complessi del mondo reale, come l’obesità infantile, la diffusione della malaria o l’aumento allarmante della criminalità da coltello, soltanto per fare qualche esempio. Con l’intento dichiarato di acquisire una comprensione più profonda del comportamento umano, la multinazionale di servizi digitali Cognizant ha siglato una partnership con la società di consulenza manageriale Red Associates, altamente specializzata nell’affrontare i problemi di business utilizzando gli strumenti delle scienze umane e sociali. Una collaborazione che ha determinato la costituzione di team eterogenei e cross-funzionali, composti perlopiù da digital strategist, designer, data scientist, economisti comportamentali, antropologi, sociologi, etnografi e filosofi. Probabilmente dovremo arrenderci all’evidenza che non miglioreremo i nostri processi decisionali semplicemente collezionando più dati, ma solo quando avremo ottenuto autentica conoscenza. In altre parole ci servirà poco sapere che qualcosa sta accadendo o potrebbe accedere, se poi non sapremo spiegare anche il perché. In merito alla consapevolezza dell’importanza di un’integrazione evoluta tra metodi etnografici e applicazioni per la big data analysis, quale livello di maturità hai riscontrato osservando le società di consulenza italiane e le loro aziende clienti?

Dobbiamo partire filosoficamente da una prima premessa. Stiamo facendo esperienza di una nuova terraformazione (un nuovo modo di abitare questo pianeta) fatta di dati senzienti e algoritmi di apprendimento. Siamo solo agli inizi. Questo nuovo viaggio della civilizzazione umana sulla Terra potrebbe riservarci, allora, non poche occasioni di meraviglia e stupore. Potremo scoprire che ci sono molti mondi dentro il nostro mondo e immaginare sorprendenti esperienze e benefici sostenibili e collettivi per città e comunità. Alcuni filosofi parlano di data sensorium. Di fatto, sta nascendo un nuovo sensorium fatto di/dai dati (data as a new sensorium), una nuova capacità di sentire del/il mondo (e l’economia e il business) attraverso le operazioni di misurazione e quantificazione. Costruire, allora, una cultura condivisa consapevole della centralità strategica presente e prossima del dato diventa un’operazione tanto cruciale quanto difficile per molti versi. Perché acquisire il senso dei/per i dati (data sense) implica anzitutto il domesticarsi tecnicamente con competenze di scienza e ingegneria in continuo divenire. Dal dato “reale” anonimizzato (e da come si costruisce, ad esempio, una data anonymization pipeline) al dato “sintetico” simulato (attraverso una trusted data synthesis), crescono le tecnicalità necessarie a imprese e manager per valorizzare strategicamente la dimensione della quantificazione di architetture, applicazioni, mercati. E tuttavia, l’ingegneria non è sufficiente, concordo: abbiamo bisogno anche di più pensiero filosofico e finanche di nuove metafisiche del dato. C’è un bel saggio (Data. A Guide to Humans, 2021) che rilancia proprio l’idea della necessità di coltivare i data philosopher con un approccio multi/inter/cross disciplinare. Dopo questa doverosa premessa, dobbiamo anche riconoscere un secondo orizzonte. È in atto un altro passaggio di civilizzazione rilevantissimo. Stiamo progressivamente entrando in quella che chiamo “feedforward economy”, l’economia dell’anticipazione. Se finora abbiamo vissuto al tempo dell’archivio, ora cominciamo a fare esperienza del tempo dell’oracolo. L’orizzonte non è più semplicemente il real-time, ma il near-time: non il tempo presente, ma quello prossimo. Le architetture planetarie sensitive, connettive, cognitive, attuative (tra codice, sensori, dati, algoritmi, protocolli) creano un mondo in cui l’informazione non fluisce più dal passato al presente, ma dal futuro al presente. Il dispositivo tecnico “oracolare” (arrischiato e probabilistico) ha l’obiettivo di ridurre la latenza informazionale tra il tempo (antropico) dell’accadere futuro degli eventi e il tempo (macchinale) presente del processare dati. In questo, evoca e istanzia lo scarto temporale tra il tempo dell’umano e quello della macchina. Stiamo così passando dal ridurre lo scarto tra passato e presente (skew time) al ridurre lo scarto tra futuro e presente (forward time). Con un paradosso, potremmo osare e dire che la tecnica inverte l’ordine del tempo: il futuro accade prima del presente. Perché crea valore questo passaggio? Perché come umani non abbiamo solo la necessità di gestire il sovraccarico informativo sul presente, ma anche e sempre più quella di gestire l’incertezza informativa sul futuro. Questa capacità di anticipazione comincia a manifestarsi in vari contesti e in molteplici esperienze: la medicina preventiva, la manutenzione predittiva, la mobilità allertativa, la medialità raccomandativa, la sicurezza assistiva e così via. Questo non significa che saremo in grado di determinare con precisione tutto. Significa che il business della predizione diventerà pervasivo e trasformerà la nostra civiltà. Insieme coi benefici ovviamente dovremo imparare a gestire le vulnerabilità dell’era dell’oracolo. A rischio non sono solo la riservatezza dei dati o l’imparzialità delle decisioni degli algoritmi. In gioco ci sono la nostra libertà di scelta e, più filosoficamente, la determinazione stessa del nostro destino. Nella mia esperienza, la consapevolezza della necessità di una “cultura del dato” (e non solo una “ingegneria del dato”) sofisticata è ancora lontana. Le competenze tecniche devono arricchirsi dello sguardo filosofico, dunque, per far crescere una consapevolezza più speculativa e sistemica sulla rivoluzione del dato. Non solo ragionando di sensibilità etiche post-antropocentriche (il perché), ma anche valutando le assunzioni filosofiche e le implicazioni teoretiche del conoscere il mondo (il cosa e il come) attraverso i dati. Nelle aziende, oggi, c’è molta ricerca di persone con competenze tecniche (che scarseggiano) e c’è volontà di dotarsi di infrastrutture e piattaforme analitiche (che abbondano). E, tuttavia, ci sono segnali incoraggianti. Ho incontrato personalmente grandi aziende del comparto telefonico in Italia che nei loro dipartimenti di data science hanno assunto anche dei filosofi. Sono fiducioso, ma ci vorrà tempo.

Com’è noto, il tessuto imprenditoriale italiano è composto da una pletora sterminata di micro imprese, che in moltissimi casi dispongono di risorse umane e finanziarie estremamente limitate. Ciononostante, al giorno d’oggi, in virtù dei canali social, delle più comuni applicazioni di content management system e delle recenti piattaforme per podcast e live streaming, qualsiasi azienda, indipendentemente dalla sua tipologia e grandezza, ha libero accesso a tutte le dotazioni informatiche e strumentali essenziali per assumere le connotazioni di un autentico editore, con la piena facoltà di poter raccontare, senza alcuna restrizione territoriale, i valori distintivi del proprio brand. Uno scenario iperconnesso e ipermediatico in cui dimensioni e fatturato passano “quasi” in secondo piano, lasciando intravedere i prodromi di una guerra per l’attenzione che può essere vinta solo sul terreno dei contenuti. Potrebbero essere proprio i filosofi, quelli capaci di unire creatività e tecnologia, nell’intento di generare nuove forme espressive e comunicative, i protagonisti di un’innovazione frugale mirata al salvataggio delle aziende più piccole, ulteriormente indebolite dall’attuale crisi economica e sanitaria?

Credo che la filosofia possa portare un contributo in questa fase di passaggio epocale e non episodica che viviamo. Anche al tessuto delle piccole e medie imprese. A patto che torni ad occuparsi delle questioni del nostro tempo e non solo a commentare i sacri testi dei filosofi del passato. Molta filosofia oggi non è filosofia ma filologia, è analisi dei testi filosofici. Che indubbiamente va fatto, ma non può essere ridotta a questa attività esegetica. Per altro verso, però, la filosofia deve avere l’umiltà di frequentare laboratori e fab lab, data center e startup per poter entrare con densità nella materia tecnica contemporanea. E dovrebbe così riuscire a scardinare vecchi paradigmi e modelli. Anche quello della comunicazione citato. Infatti, il paradigma corrente della comunicazione raffigura la tecnologia come canale che veicola informazione tra gli umani, come un medium logistico. L’obiettivo di questo modello “veicolare” è la sollecitazione e la cattura dell’attenzione dei consumatori. Per fare ciò si applicano strategie psicologiche, contenutistiche e persuasive consolidate. E tuttavia, nell’orizzonte tecnico odierno, questa prospettiva meramente antropologica (o, come la definisco più propriamente, “antropo-logistica”) della comunicazione rischia di essere una visione sicuramente incompleta se non interamente obsoleta. Dalla pubblicità al giornalismo, lo scardinamento prodotto dalle nuove ecologie tecnologiche è sempre più evidente. E non è solo uno smottamento della comunicazione, ma più in generale e in prospettiva un salto ontologico che ridisegnerà meccanismi di mercato, interazioni economiche, transazioni umane e non umane. Certamente, questa prospettiva antropocentrata è comprensibile. Comunicazione e marketing sono stati forgiati in un mondo di attori economici esclusivamente “umani”. La questione è, però, che l’arrivo di agenti artificiali di varia natura (dati, algoritmi, protocolli, piattaforme, applicazioni, macchine) che sono agenti nuovi nel gioco dei mercati impone di cominciare a ripensare e reimmaginare non solo strategie e pratiche, ma, da ultimo, proprio il senso stesso della comunicazione. In realtà, abbiamo già iniziato da tempo quasi senza accorgercene. Ad esempio, con lo sviluppo di siti web attrattivi non solo per consumatori in carne e ossa, ma anche per i bot che vengono a classificare le pagine per i motori di ricerca. Ogni sito web ha, di fatto, due audience: una umana e una inumana. In questo caso stiamo, cioè, catturando l’attenzione degli algoritmi di indicizzazione, non solo degli umani. Queste pratiche sono in via di espansione dentro le nuove ecologie mediali con intelligenza artificiale incorporata in oggetti e ambienti. Secondo alcuni, questo lascerebbe presagire addirittura una perdita di efficacia della “comunicazione simbolica” (branding, advertising, media, journalism) a favore della “comunicazione algoritmica” (sensing, filtering, sorting, scoring, matching). Nella comunicazione con gli umani la marca (brand) è finora servita come meccanismo di riduzione di incertezza e complessità. Ha aiutato chi consuma a scegliere una specifica crema di nocciole in mezzo a tante possibilità proposte su uno scaffale. Ma nelle interazioni di mercato sempre più automatizzate con bot, dati, software, sensori, intelligenza artificiale, il meccanismo di riduzione dell’incertezza diviene l’algoritmo. Algoritmi che selezionano, suggeriscono, anticipano, personalizzano servizi, applicazioni, esperienze. Nel mio primo libro filosofico avevo parlato di “markething”, fare marketing alle cose intelligenti. Oggi anche Rajamannar, il capo mondiale del marketing di MasterCard nel suo ultimo libro (Quantum Marketing, 2021) scrive che le imprese devono imparare a fare “marketing alle macchine” (marketing to machines) e non solo by machines (martech). Nel loro ambito anche le piccole, micro e medie imprese dovranno domesticarsi con questi nuovi orizzonti anche grazie all’aiuto dei filosofi.

Recentemente l’Università di Oxford ha arricchito la propria offerta formativa istituendo un nuovo corso di laurea in “Computer Science and Philosophy”, nella convinzione che l’intelligenza artificiale, la logica, la robotica, la modellizzazione e comprensione di fenomeni fisici e sociali complessi, sono aree tematiche in cui convergono informatica e filosofia. Questo mentre in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in molti altri paesi scientificamente avanzati, proliferano ormai da anni corsi di laurea in Scienze Cognitive, all’interno dei quali la filosofia, la psicologia, la linguistica, l’antropologia, le neuroscienze e l’intelligenza artificiale collaborano sinergicamente allo studio della struttura e del funzionamento della mente umana. Presumibilmente, una gran parte di questa ricerca di base avrà notevoli ricadute applicative non solo nel settore della robotica autonoma, ma anche in quello delle interfacce cervello-computer (brain-computer interfaces), dove si perseguono obiettivi di medio/lungo temine che si collocano ben oltre le iniziali destinazioni terapeutiche. Si prevede che nel 2027 la sola industria delle interfacce neurali raggiungerà un valore di mercato approssimativo di 3,5 miliardi di dollari. Sulla scia di questi pronostici favorevoli la startup americana Neurable sta mettendo a punto un prototipo di cuffie avvolgenti dotate di morbidi padiglioni imbottiti in cui sono alloggiati 16 sensori EEG per la registrazione non invasiva dell’attività elettrica cerebrale durante i picchi di massima attenzione. In questo modo l’utente può progettare un flusso di lavoro personalizzato e super efficiente, poiché i dati forniti dall’elettroencefalogramma servono ad alimentare gli algoritmi di machine learning che hanno il compito di rilevare e suggerire gli schemi comportamentali più produttivi, consentendo di ridurre al minimo gli episodi di distrazione e gli errori che ne conseguono. Sebbene si trovi ancora nella sua fase aurorale, la simbiosi operativa tra sistemi cognitivi biologici e sintetici, viene di fatto salutata e accolta come foriera di infinite potenzialità. Ritieni che sia possibile avere un quadro più ampio di ciò che si profilerà nel futuro impiego delle neurotecnologie con specifiche finalità strategiche e aumentative nei programmi di sviluppo manageriale?

Più in generale, al Media Lab del MIT ad esempio ho avuto modo di conoscere e testare le macchine neuro-tecnologiche e le interfacce brain-computer di OpenBCI. E sempre al MIT è nata di recente l’iniziativa “Quest for Intelligence”. L’idea per come è stata indicata dallo stesso presidente del MIT Rafael Reif è la seguente. “In un momento di rapidi progressi nella ricerca sull’intelligenza in molte discipline, l'Intelligence Quest incoraggerà i ricercatori a indagare sulle implicazioni sociali del loro lavoro mentre perseguono problemi difficili che si trovano oltre l'attuale orizzonte di ciò che è noto. Alcuni di questi progressi possono essere di natura fondamentale, poiché implicano nuove conoscenze sull'intelligenza umana e nuovi metodi per consentire alle macchine di apprendere in modo efficace. Altri possono essere strumenti pratici da utilizzare in un'ampia gamma di attività di ricerca, come diagnosi di malattie, scoperta di farmaci, progettazione di materiali e produzione, sistemi automatizzati, biologia sintetica e finanza. Oggi abbiamo deciso di rispondere a due grandi domande - ha affermato sempre il presidente-: come funziona l'intelligenza umana, in termini ingegneristici? E come possiamo usare quella profonda comprensione dell'intelligenza umana per costruire macchine più sagge e più utili, a beneficio della società?” Da parte mia commenterei, allora, che in parallelo alle ricerche che si svolgono ad esempio nell’ambito di MIT CSAIL su intelligenza artificiale e robotica, si è deciso di spingere ulteriormente sulla comprensione dell’intelligenza umana. Per entrare, invece, più in specifico sulla questione posta direi che, in ambito manageriale, mi sembra che siano molto attivi gli ambiti disciplinari legati al neuromarketing. Quindi alla capacità di impiegare la strumentazione tecnologica per conoscere al meglio la mente (e quindi i meccanismi decisionali) di consumatori, collaboratori, impiegati e clienti. Ci possono naturalmente essere dei facili ed eccessivi entusiasmi rispetto a queste nuove tecnologie e metodologie di indagine. Certi meccanicismi del funzionamento del cervello possono lasciare un po' di perplessità ad uno sguardo più sofisticato circa la mente, la sua natura e i fenomeni connessi. D’altro canto, la possibilità di sviluppare terapie medicali (applicazioni cliniche) che vadano a sostituire o integrare le cure farmacologiche o gli interventi chirurgici spinge alla sperimentazione e all’innovazione neurotecnica. Molte persone già vivono da tempo con impianti neuroprotesici per prevenire attacchi epilettici o per poter comunicare con il mondo essendo paralizzate in toto. Nel mentre, la Food and Drug Administration americana sta approvando in questi mesi nuovi dispositivi neuroprotesici: impianti che possono essere introdotti nel cervello per via venosa dalla base del collo per il trattamento della paralisi. Se dalle cure riabilitative passiamo alle spinte aumentative, uno speciale di questo mese del Wall Street Journal ha fatto il punto della situazione. Alla frontiera delle neuroscienze e delle neurotecnologie, scienziati e ricercatori stanno progettando dispositivi per poter aggiornare la memoria, migliorare le capacità di apprendimento dei neuroni e comunicare usando solo la nostra mente. Ma ripeto, c’è molto hype e forse anche una prospettiva di analisi e di azione eccessivamente meccanicistico-ingegneristica.

Forse siamo sul punto di prendere coscienza del fatto che un nuovo paradigma di leadership si rende quanto mai indispensabile in un mondo programmabile, in cui l’essere umano non è più esclusivamente un creatore, scevro di qualsiasi responsabilità e immune da qualsiasi conseguenza, ma l’oggetto stesso di metamorfosi profonde, con esiti difficilmente prevedibili e gestibili senza adeguati strumenti analitici e immaginativi. “Filosofia, tecnologia, ethos e planetarietà” è un titolo molto evocativo per definire il perimetro tematico di un imminente percorso accademico che sembra proprio dedicato alla formazione della prossima classe dirigente…

Sulla scorta dei libri usciti e in generale dell’approccio phil-tech, è cresciuto l’interesse come dicevo per le questioni che incrociano filosofia, tecnologia, economia e mondo. Mondo qui inteso nel suo senso più ampio di planetarietà e di condizione planetaria. In tempi di transizioni tecnologiche e ambientali (intrecciate e forse a ben guardare indistinguibili), è fondamentale riuscire a illuminare al meglio la dimensione ecotecnica che abitiamo e che ci abita. Il corso per un nuovo master universitario in Italia è in via di preparazione. Toccherà direi di fondo due orizzonti intrecciati sul futuro dell’umanità: la “condizione” e la ”conduzione”. Una parte sarà dedicata a esplorare la nuova condizione umana per come emerge dall’evoluzione tecnologica in corso. E in parallelo valuteremo la nuova conduzione umana che richiede l’assunzione di nuove responsabilità verso il pianeta. Direi, infatti, che non c’è terapeutica della “conduzione” umana (sostenibilità) senza una diagnostica della “condizione” umana (planetarietà). Questa terraformazione in divenire ci richiede, allora, anche di scardinare paradigmi speculativi, modelli culturali e inventari ristretti immaginando ecologie beyond nature e tecnologie beyond human. Ad esempio, si parla sempre più spesso di intelligenza artificiale come strumento per risolvere molti dei problemi attuali del nostro pianeta. Nel corso parleremo di come queste nuove capacità di intervento dell’intelligenza artificiale nel mondo sono invocate oggi sempre più anche per supportare gli obiettivi dello sviluppo sostenibile (SDGs) sul nostro pianeta e anche delle nostre città. E certamente, molteplici sono i benefici attesi dall’impiego dell’intelligenza artificiale per la salute del pianeta e dei suoi abitanti umani, animali e vegetali. Parlando di ambiente e sostenibilità si possono già individuare contesti e casi d’uso. Tuttavia, queste potenzialità non si dispiegano in automatico senza governance né modellano esclusivamente effetti positivi e di miglioramento delle condizioni di sviluppo ambientali, economiche e sociali. Di questo dobbiamo essere consapevoli andando oltre le facili semplificazioni di una vulgata propaganda, poco attenta, poco capace e poco interessata a entrare nella complessità vera delle sfide planetarie in corso. Nella prospettiva di un’attenzione alla complessità, un’analisi recente pubblicata su Nature Communications ha mappato in dettaglio il ruolo dell’intelligenza artificiale nel perseguimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Le conclusioni degli esperti a cui arriva l’indagine indicano chiaramente che l’impatto potenziale dell’AI è duplice: può essere sia abilitatore che inibitore. In alcuni casi e contesti funziona effettivamente da sostegno e acceleratore degli obiettivi di equità, inclusione, sostenibilità, crescita mitigando inefficienze e sprechi. In altri ambiti ed esperienze, questa capacità migliorativa è meno accentuata o assente e anzi talvolta trasformata nel suo opposto aggravando disuguaglianze e discriminazioni. Il corso entrerà anche dentro questa complessità.

Avresti il piacere di condividere, in guisa di conclusione, qualche dettaglio sulla tua attività di ricerca all’interno del MIT Connection Science?

Questa mia esperienza di ricerca affiliata al MIT iniziata con un visiting appointment nel 2016 ha avuto l’obiettivo di approfondire gli orizzonti scientifici, tecnologici e ingegneristici in divenire. Era ed è, quindi, un passaggio necessario per poter esercitare lo sguardo filosofico sulla materia tecnica che è stata oggetto dei miei tre studi sull’acculturazione digitale. Ho avuto e ho così modo di frequentare laboratori, dipartimenti, corsi che arricchiscono tecnicamente il mio bagaglio filosofico. Nel tempo, tra i vari e rilevanti, mi piace ricordare: lo Human Dynamics Lab al MIT Media Lab, il MIT CSAIL Computer Science & Artificial Intelligence Lab, MIT SSRC Sociotechnical System Research Center (ora affiliato a MIT IDSS Institute for Data, Systems and Society), MIT Connection Science. In particolare, quest’ultimo è un hub multidisciplinare in cui ricercatori, analisti, professionisti ed esperti di diversa provenienza progettano e costruiscono soluzioni di innovazione tecnologica a forte impatto socioeconomico grazie a tecnologie di frontiera. È anche l’iniziativa che coordina i living lab ideati dal prof. Pentland in cui le soluzioni futuristiche ideate vengono implementate nel vivo di contesti, ambienti, città e governi. Questi progetti richiedono uno sguardo culturale sulla complessità che proprio un approccio filosofico come il mio può contribuire a coltivare. Inoltre, alcuni dei progetti implicano anche una sorta di trasferimento di conoscenza dall’università alle imprese e istituzioni. In questo senso una figura ibrida qual è la mia (che ha competenze culturali, tecniche e managerial-consulenziali fuse insieme) costituisce un ponte ideale per far dialogare mondi spesso (almeno nel nostro paese, meno direi in Usa) separati come l’accademia e l’industria. Il focus della mia ricerca rimane tuttavia lo studio filosofico della tecnologia che è poi anche l’orientamento peculiare dei miei saggi a cui la ricerca è dedicata. Tutta questa ricchezza di conoscenza e di scambio è stata alimentata dalla frequentazione del campus del MIT. Un vero e proprio concentrato di talenti “delle mani e delle menti” dove speriamo di poter tornare a vivere al meglio anche in presenza dopo questa fase di chiusura pandemica. Il campus è stato evacuato, infatti, poco più di un anno fa e tutte le attività spostate online e da remoto. Ora stanno lavorando per un ritorno progressivo e massivo con tutte le cautele e le misure di prevenzione. In queste ore ho ricevuto le nuove direttive e policy per un rientro e un ritorno in sicurezza. È la speranza di una ripartenza della nostra vita nella sua pienezza fisica e mentale.

Ringraziamo Cosimo Accoto per la sua disponibilità a rilasciare questa intervista e invitiamo caldamente tutti i lettori a seguirlo regolarmente sul suo sito personale https://cosimoaccoto.com