Storie che non esistono
Quanto conosciamo la storia? Ben poco in realtà! Con l’aiuto degli amici di “Pinte di Storia”, in questo articolo vedremo cadere molte delle nostre certezze. Tra frasi mai pronunciate, eventi mai accaduti e addirittura personaggi mai esistiti, si conferma ancora una volta la forza delle fake news.
Articolo in collaborazione con Pinte di Storia
La storia è una materia talmente vasta che è impossibile conoscere tutte le epoche e i personaggi celebri a menadito. Questo lascia libera una vasta zona grigia, nella quale riescono ad infilarsi delle narrazioni, diciamo così, alternative. Storie inventate di sana pianta che, nobilitate dal tempo, possono venire elette a verità. Confidando nel fatto che nessuno vada a controllare la loro fondatezza, riescono a farsi strada e a ingannare talvolta anche persone non proprio sprovvedute…Assieme agli amici di “Pinte di Storia” abbiamo raccolto alcune di queste finte verità, per mostrarvi come hanno avuto origine e quale sia stata la loro influenza sul nostro modo di vedere un certo periodo storico o personaggio.
Buona lettura!
IL CAVALLO DI CALIGOLA
La figura del sovrano affetto da follia ha sempre affascinato. Parlando poi degli imperatori romani, ve ne sono alcuni passati alla storia proprio per le loro “pazzie”, vere o presunte tali. Molte di queste storie sono riportate da fonti che vanno prese col beneficio del dubbio; si tratta infatti di cronisti vissuti secoli dopo, oppure dichiaratamente di parte. Solo da poco è stata sdoganata (per il pubblico) la figura di Nerone. Se i colossal hollywoodiani lo hanno mostrato intento a cantare versi poetici mentre Roma andava in fiamme, avvalorando così le tesi dei suoi oppositori, grazie al lavoro dei divulgatori si sono incominciate a diffondere le informazioni note già da tempo in ambito accademico. Cioè che molte accuse relative alle sue “follie” derivano da resoconti a lui ostili e per alcune è palese l’intento denigratorio.Vi sono poi imperatori romani per i quali le fonti contemporanee sono scarse o assenti, e si deve ricorrere a quanto è stato scritto da cronisti vissuti molti anni dopo.
E’ il caso di Caligola, al secolo noto come Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico, che governò per soli quattro anni, dal 37 al 41 d.c.; molto di quanto ci stato tramandato su di lui arriva infatti dagli scritti di Svetonio e di Cassio Dione. Oltre a non essere suoi contemporanei, entrambi i cronisti erano legati all’aristocrazia senatoria, pertanto portati a dare un giudizio decisamente negativo su questo imperatore, che ebbe pessimi rapporti col senato. Per quanto si sa, nel regno di Caligola c’è stato un prima e un dopo. Asceso al potere nel marzo del 37 d.c., per i primi mesi di governo seguì una condotta piuttosto “normale”, apprezzata tanto dal popolo che dal senato. Nell’ottobre di quello stesso anno però si ammalò tanto gravemente da rischiare la morte. Quale che fosse la malattia, l’imperatore riuscì tuttavia a riprendersi, ma da allora cambiò totalmente il suo comportamento e lo “stile” di governo. Stando a quanto ci riporta una delle poche fonti sue contemporanee, Filone di Alessandria:
“[..] non passò molto tempo e l’uomo che era stato considerato benefattore e salvatore [..] si trasformò in essere selvaggio o piuttosto mise a nudo il carattere bestiale che aveva nascosto sotto una finta maschera”[1]
Il suo modo di governare divenne più simile a quello di un sovrano orientale; mentre prima aveva mantenuto il formale rispetto verso le istituzioni della repubblica, cominciò a esercitare il potere in modo arbitrario. Pretese di essere trattato come un dio vivente e si inimicò il senato con dei molti suoi atteggiamenti, finendo infine vittima di una congiura.
Proprio dai suoi cattivi rapporti col senato viene fuori l’aneddoto che ci interessa. Può infatti capitare di sentire dire da qualcuno che Caligola nominò senatore il proprio cavallo. Per esempio, nel 2010 si paragonò la nomina di Aldo Brancher a ministro da parte dell’allora Presidente del Consiglio Berlusconi[2] alla vicenda del cavallo di Caligola; nel 2016 invece è stato il turno dello scrittore Roberto Saviano, che la citò in un suo post di Facebook, in aperta polemica contro la nomina ad assessore, nel comune di Salerno, del figlio del presidente della regione Campania De Luca[3]. Come abbiamo già detto, gli storici che narrano di Caligola non sono totalmente attendibili; tuttavia, per smentire questa affermazione, non serve avere l’affidabilità completa. E’ sufficiente invece andare a leggere con un po’ di attenzione quello che tali cronisti hanno scritto. Raccontando della passione di Caligola per le corse dei cavalli, Svetonio dice egli riservava un trattamento speciale per Incitatus, il proprio cavallo preferito:
“gli regalò delle gualdrappe di porpora e dei finimenti ingemmati, e persino una casa arredata e dei servi, per ricevere con maggiore dignità le persone che (Caligola) invitava a suo nome (di Incitatus). Si dice che volesse perfino nominarlo console”[4]
Sempre a proposito di Incitatus, Cassio Dione riporta:
“(Caligola) Giurava inoltre in nome della salvezza e della sorte di Incitatus ed aveva anche promesso che lo avrebbe designato console, cosa che avrebbe sicuramente fatto, se fosse vissuto più a lungo”[5]
Nessuno dei due cronisti riporta l’evento come una cosa accaduta, bensì come una semplice diceria o al massimo un’intenzione, che però non ebbe mai realizzazione. Pertanto chi riporta la nomina del cavallo a senatore come un fatto compiuto commette di sicuro un inesattezza. Il cavallo non andò mai in senato né vestì la toga (come viene mostrato in alcune raffigurazioni e meme). In quale modo si sia fatta strada questa errata convinzione non è dato sapere. Gusto per il sensazionalismo? Una semplice lettura approssimativa dei testi? Forse. Queste, del resto, sono alcune delle cause più comuni che contribuiscono alla diffusione di notizie false. Quel che è certo è che di sviste come questa ne esistono molte, molte altre…
LA LEGGENDA DELLA BANDIERA RUBATA.
Pochi mesi fa, mentre la nazionale si apprestava a giocare la finale degli europei contro l’Inghilterra, in rete circolava una storia, non nuova per la verità, riguardante proprio la bandiera inglese. Per intenderci, non parliamo della Union Jack, simbolo di tutta la Gran Bretagna, bensì della bandiera con la croce rossa in campo bianco, simbolo della sola Inghilterra. Si raccontava dunque che all’epoca della Terza Crociata (1190) il re d’Inghilterra, Riccardo Cuor di Leone, avesse “affittato” tale bandiera dalla Repubblica di Genova per farla sventolare sulle proprie navi. Essendo Genova una delle principali potenze marinare dell’epoca, questo espediente avrebbe avuto lo scopo di dissuadere eventuali malintenzionati dall’attaccare quelle navi. La bandiera di Genova in effetti è esattamente identica a quella inglese appena descritta, ed è vero che in quell’epoca la città ligure dominò sui traffici nel Mar Mediterraneo, fondando persino colonie commerciali in oriente. Tuttavia questa storia aggiunge anche altro; l’ingrata Inghilterra infatti, dopo aver goduto di tale beneficio, smise di pagare a Genova il prezzo pattuito nel corso del 1700. Come storia, nulla da dire, è affascinante, e batte anche sul tasto di un certo nazionalismo anglofobo; la realtà tuttavia è ben diversa: le due bandiere, seppur identiche, furono adottate tanto da Genova che dall’Inghilterra in modo del tutto indipendente.
L’equivoco, o la speculazione se preferite, nasce da una lettera del Duca di Kent, il cui testo venne riportato nel padiglione britannico all’EXPO di Genova del 1992:
“La bandiera di San Giorgio, una croce rossa su fondo bianco, fu adottata dall’Inghilterra e dalla Città di Londra nel 1190 per le navi inglesi dirette verso il Mediterraneo affinché potessero essere protette dalla flotta genovese. Per questo privilegio, il Monarca inglese corrispondeva al Doge di Genova un tributo annuale.”
Questa lettera, scritta evidentemente con l’intenzione di omaggiare la città ospitante l’esposizione, riprende alcune tesi esposte dagli storici britannici Michael Collins e Jonathan Good nei loro saggi.[6] Tesi che a loro volta facevano riferimento a un testo ben più antico, scritto da Agostino Giustiniani e pubblicato, postumo, nel 1537 col titolo “Castigatissimi annali della Repubblica di Genova”. Nell’intento di scrivere una storia della propria città natale, il Giustiniani si fece indubbiamente prendere un po’ troppo la mano nell’incensarla, riconoscendole meriti e virtù superiori alla realtà. Di fatto gli “Annali” sono considerati un mero testo propagandistico a favore di Genova.
Ad ogni modo è questo il testo più antico dove viene riportata la cessione della bandiera genovese all’Inghilterra, senza peraltro parlare di un tributo; un accordo tra due stati insomma, che stranamente non figura tra i documenti ufficiali. Già questo dovrebbe far venire i sospetti sull’autenticità della vicenda. Se però non dovesse bastare, aggiungiamo che nella storia riportata dal Duca di Kent figurano alcune inesattezze che non sfuggono certo a uno storico: si dice infatti che gli inglesi pagavano un tributo al Doge dal 1190, sebbene tale carica politica a Genova venne istituita soltanto nel 1339 con l’ascesa al potere di Simone Boccanegra.
Se ci basiamo su altre evidenze storiche, risulta inoltre che la bandiera con la croce rossa in campo bianco fosse già utilizzata in Inghilterra prima del fatidico 1190; infatti essa è raffigurata nell’Arazzo di Bayeux (realizzato verso la fine del XI secolo). A Genova invece non si hanno attestazioni ufficiali di quella bandiera precedenti al 1152, ma si può presumere che fosse già utilizzata dall’epoca della Prima Crociata[7].
Nonostante l’assenza di documenti certi che ne attestino la veridicità, la storiella della bandiera in affitto ha seguito l’iter narrativo di ogni bufala che si rispetti; è stata infatti riportata da importanti quotidiani [8], né ha mancato di attirare l’interesse della politica, che vi si è buttata sopra a capofitto. Nel 2018 infatti, l’attuale sindaco di Genova Marco Bucci si rese protagonista di un’insolita trovata pubblicitaria, chiedendo gli arretrati per l’affitto della bandiera alla regina Elisabetta…
FLAVIO GIOIA: QUANDO LA STORIA PERDE LA BUSSOLA…
La bussola è stata sicuramente una delle innovazioni tecnologiche più rilevanti nell’ambito della navigazione. Non commettiamo certo un’esagerazione nel dire che ha permesso di navigare in modo del tutto differente, abbreviando i tempi e permettendo le grandi esplorazioni oceaniche. Le proprietà del magnetismo furono per la prima volta utilizzate dai cinesi, ma la bussola come noi la conosciamo ebbe sviluppo nel mediterraneo, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. Un ruolo chiave lo giocò probabilmente la diffusione delle conoscenze cinesi trasmessa dal viaggiatore veneziano Marco Polo al suo ritorno in patria nel 1295. Fatto è che già nel 1300 lo strumento venisse adottato dai navigatori veneziani, arabi e amalfitani. Proprio a questi ultimi si attribuisce l’invenzione, o perlomeno il perfezionamento di questo strumento.
L’umanista Lilio Gregorio Giraldi, nel suo trattato sull’arte della navigazione De Re Nautica (1540), attribuì l’invenzione della bussola a un tale Flavio di Amalfi.[9] Riprendendo questa affermazione, lo storico napoletano Scipione Mazzella aggiunse poi (non si sa come) un altro dettaglio: il presunto inventore si sarebbe chiamato Flavio da Gioia[10]. Mazzella attribuisce quindi origini pugliesi all’inventore, che sarebbe stato originario di Gioia (Gioia del Colle). In tal modo il personaggio passò alla storia come Flavio Gioia. A costui sono oggigiorno dedicate vie, piazze in tutta Italia, mentre ad Amalfi gli è stato eretto perfino un monumento; peccato che egli, in realtà, non sia mai esistito!
Il modo in cui si è creata la figura leggendaria di Flavio Gioia è così singolare da meritare di essere raccontato in maniera approfondita. Lilio Gregorio Giraldi trasse infatti la sua affermazione da quanto riportato anni prima nel testo In Carum Lucretium poetam Commentarii (1511), di Giovan Battista Pio. I Commentarii sono un trattato sulle opere del poeta Tito Lucrezio Caro, nel quale però si trovano anche dissertazioni sulle più varie materie. In una di queste si legge:
“Amalphi in Campania veteris magnetis usus inventus a Flavium traditur.” [11]
Frase che il Giraldi interpretò come “Si tramanda che l’uso della bussola sia stato inventato ad Amalfi, in Campania, da Flavio”. Tutto l’equivoco nasce da questa traduzione dal latino, perfettamente lecita dal punto di vista grammaticale, ma non corrispondente al senso che voleva darvi l’autore. Con quella frase, Giovan Battista Pio intendeva infatti fare riferimento a quanto era stato scritto da Flavio Biondo, letterato del secolo precedente, forse il primo ad attribuire in un testo l’invenzione della bussola agli amalfitani[12]. In tal senso, la frase va tradotta come “Viene tramandato da Flavio che l’uso della bussola sia stato inventato ad Amalfi in Campania”.
Insomma, la figura di Flavio Gioia nasce da un giro di citazioni fra letterati, un’errata interpretazione di una frase in latino e successive aggiunte (inventate probabilmente dal Mazzella). A fare chiarezza sulla vicenda, se vi interessa approfondirla, vi è uno studio della storica del medioevo Chiara Frugoni[13], che ha condotto una ricerca al fine di dimostrare l’inesistenza di questo leggendario inventore, con buona pace della toponomastica di molte nostre città...
MARIA ANTONIETTA, TUTTA COLPA DI UNA BRIOCHE
Facciamo un esperimento, vi va? Se vi diciamo “Che mangino brioches” a chi pensate?
Ma certo, ovviamente a Maria Antonietta, regina di Francia dal 1774 al 1792. La giovane regina è, innegabilmente, uno dei personaggi più famosi della Storia: ai suoi tempi era un’icona di stile e bellezza, quasi una Ferragni del XVIII secolo ma senza Fedez – che Luigi XVI non regge proprio il confronto. Con lo scoppio della Rivoluzione francese, però, la sua immagine viene sistematicamente denigrata, descrivendola come una donna viziata e capricciosa, frivola, irresponsabile ed assetata di lusso. Questa idea di lei la Francia se l’era però già fatta prima, durante la sua adolescenza - età nella quale siamo tutti degli idioti da prendere a schiccherate sulle gengive -, idea che tale rimase anche durante l’età adulta, quando invece iniziò a mostrare più senso di responsabilità e di riflessione. Proprio come ciascuno di noi dopo i 20 anni. Ma con la crisi della monarchia, causata da una perdurante crisi economica che aveva ridotto il popolo alla fame, lei divenne per tutta la Francia Madame Deficit o, peggio, l’Autrichienne, la “cagna austriaca”.
Fatta questa premessa analizziamo la celebre frase a lei attribuita, iniziando dal corpo del reato: la brioche. Che cos’è la brioche nel XVIII secolo? Secondo l’Oxford Companion to Food di Aland Davidson, la brioche del Settecento non era molto diversa da una forma di pane bianco. La differenza stava nel tipo di clienti: chi se lo poteva permettere poteva gustare una vera e propria nuvola di burro sofficissimo e zucchero, i meno fortunati dovevano accontentarsi di un’effimera quantità di burro e uova, che la rendevano più simile all’odierno pane all’olio. Dunque, la brioche era un alimento per soli ricchi? Assolutamente no, poteva essere comprata presso qualunque fornaio della Francia in grande quantità. Pensate che a Gisors, piccolo comune francese della Normandia, nei giorni di mercato se ne producevano tra i 200 ed i 300 kg in un giorno[14]! Anche uno dei padri nobili dell’Illuminismo, Jean Jacques Rousseau, si trovò ad acquistarne una da un comunissimo fornaio.
Tutta questa digressione sulla brioche ci ha portato lì dove volevamo. Ora dobbiamo chiederci “davvero Maria Antonietta ha detto quella frase”? Ed è qui che si fa interessante l’aneddoto su Rousseau, che lui racconta nel Libro VI de “Le confessioni”. Il nostro filosofo si trovava da Madame de Mably dove, di nascosto, si concedeva un vino d’Arbois. Solitamente, questo suo peccatuccio aveva il potere di stimolargli l’appetito e, non volendo entrare in panetteria vestito in maniera elegante poiché sarebbe stato considerato poco consono, racconta questo aneddoto: “Allora mi ricordai il suggerimento di una grande principessa a cui avevano detto che i contadini non avevano più pane e che rispose: che mangino delle brioches. Perciò mi comprai una brioche“[15]. Queste sono pagine scritte nell’anno 1741, ed ecco che scoppia la bolla: i conti non tornano affatto! Maria Antonietta nascerà solo nel 1755, ben 14 anni dopo. Non solo, lei in Francia arriverà ancora più tardi, nel 1770. Possiamo quindi stabilire con certezza che non può aver pronunciato questa frase visto che, all’epoca, non era ancora nata.
E allora? Com’è stato possibile che la frase le sia stata attribuita? Arriviamo quindi al terzo ed ultimo punto della nostra indagine. Chi ha creato questo mito? A chi deve fare causa l’avvocato di Maria Antonietta per questa diffamazione? Ebbene, signori e signore, abbiamo il colpevole: lo scrittore e giornalista repubblicano Alphonse Karr. Fu infatti lui ad associare per primo questa frase alla regina nel suo settimanale satirico “Les Guepes”, numero del marzo 1843[16], in modo puramente arbitrario e senza alcuna fonte. Si trattò di mera satira, una boutade ironica, o della fabbricazione cosciente di una vera e propria “fake news”? Ai posteri l’ardua sentenza. O forse possiamo azzardare a propendere per la prima. Sapete dove veniva stampato e venduto il suo settimanale? A Parigi, in Rue du Croissant 16. Sempre di viennoiserie si tratta…
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LA TERZA POTENZA DEI MACCHERONI
Davvero il Regno delle Due Sicilie ottenne il titolo di terza potenza industriale all’Esposizione Universale di Parigi?
Sono ormai anni – o forse decenni, si comincia ad essere anzianotti qui – che gira la famosa bufala sul Regno delle Due Sicilie terza potenza industriale del mondo, che diventa con discreta duttilità terza marina mercantile[17] a seconda delle necessità del bufalaro di turno. Gli storici hanno a lungo spiegato in tutti i modi, in tutti i libri[18] e in tutto il web[19] come e perché questa sia una bufala, sicché non ci interessa dimostrarlo qui, anche perché tale “titolo” si fonda – per gli stessi neoborbonici – sul «Primo Premio Internazionale per la Produzione di Pasta (Mostra industriale di Parigi)»![20] Industria pesante? Industria chimica? Pffff, vuoi mettere con l’industria dei maccheroni!? No, noi vogliamo fare una cosa più mirata: scoprire che cosa è accaduto all’Esposizione Universale di Parigi del 1856, la “fonte” di questo fantasmagorica bufala neoborbonica.
L’Esposizione Universale in questione, tanto per iniziare col botto, è del 1855. L’errore è facilmente spiegabile col fatto che, nel 1856, si tenne sempre a Parigi il Concorso agricolo universale. Era anche questa un’esposizione di rilievo internazionale, certo, ma di gran lunga inferiore quanto a prestigio rispetto all’Esposizione Universale. In quale dei due troviamo i nostri eroici sudditi dei Borbone che avrebbero portato a casa il succulento titolo di Terza Potenza Mondiale? Sicuramente non nella prima, visto che all’Esposizione il Regno delle Due Sicilie non c’era. Complotto massonico-sabaudo? No, impreparazione borbonica, perché il comitato organizzatore dell’Esposizione aveva assegnato uno spazio di 150 metri quadri alle Due Sicilie per esporre il meglio della sua produzione[21], ma semplicemente i Borbone evidentemente non avevano interesse in tali tediose questioni. E dire che – stando alle carte conservate nell’Archivio di Stato di Napoli[22]– era stata pure messa in piedi sin dal 14 dicembre 1854 una commissione permanente con il compito di assistere gli eventuali partecipanti. Ciò nonostante, un piccolo, eroico gruppo di imprenditori meridionali (4 napoletani e 2 siciliani) volle essere a tutti i costi presente, così decisero di partecipare a titolo individuale e a proprie spese all’Esposizione, chiedendo ospitalità al padiglione degli Stati Pontifici: ditta Genevois (saponi e profumi), ditta Avolio (gioielli di corallo, premiati con medaglia di prima classe), Riccio (“medaglie riprodotte mediante galvanica”), Di Bartolomeo (corde armoniche, premiate con medaglia di prima classe), Francesco Anca (campioni di citrato di calce) e Basilio Scariano (premiato con medaglia di seconda classe), un sarto che col suo “psalizometro” - strumento per la confezione in serie di abiti per uomo – ebbe tanto successo da aprirsi un atelier tutto suo nella capitale francese[23].
Ma non sono certo queste le basi della bufala neoborbonica, primo perché non si parla di pasta e poi perché quel che venne esposto dai sopra citati imprenditori furono registrati come “produits des États Pontificaux” e per lungo tempo nessuno storico si era accorto che tra questi c’erano degli imbucati meridionali! Ne deduciamo dunque che fa riferimento al Concorso agricolo internazionale, questo sì datato – come visto – 1856 e che stavolta vide la partecipazione ufficiale delle Due Sicilie. Molti furono gli espositori siciliani, che ottennero qualche bel riconoscimento (Ignazio Florio medaglia d’oro per il vino di Marsala, barone Onca medaglie d’oro e di bronzo per il vino, formaggi e cereali, Pavia e Rose 2 medaglie di bronzo per la seta e l’essenza di limone, Brandaleone medaglia di bronzo per il sommaco[24]) ma nessuno proveniente dalle province continentali del Regno. Così, per evitare di non avere neppure un espositore, il segretario della legazione napoletana a Parigi, Luigi Cito, presentò una cassetta di sua proprietà contenente vari formati di pasta prodotte dagli stabilimenti del duca di Sant’Arpino che ottenne la medaglia di bronzo[25]. Quindi no, niente primo premio e nulla che valga la creazione del titolo di terza potenza, visto che la giuria assegnò agli espositori della III divisione «Prodotti agricoli» (la sezione dove figuravano le paste alimentari) 10 medaglie d’oro «grand module», 67 medaglie d’oro, 177 medaglie d’argento e oltre 200 medaglie di bronzo.
EL ALAMEIN, UNA LEGGENDA DURA A MORIRE
Come il nostro problematico rapporto con i fatti della Seconda Guerra Mondiale genera bufale
Noi italiani abbiamo oggettivamente qualche problema con la Seconda Guerra Mondiale. Pur essendo stati un Paese dittatoriale che ha aggredito svariati Stati (Etiopia, Albania, Francia, Grecia, Jugoslavia ed URSS), nei manuali e nella memoria collettiva l’Italia compare davvero solo con l’armistizio dell’8 settembre e il successivo caos (vedi “guerra civile”) che ne è derivato. L’occupazione nazista e il movimento partigiano hanno di fatto ripulito la nostra coscienza, dato che la Repubblica che da quell’esperienza è nata ne ha fatto - ovviamente – i suoi miti collettivi fondativi. E fin qui nulla di strano. Quel che però è strano è il come la Repubblica abbia cercato di mantenersi in equilibro tra la condanna del fascismo e delle sue guerre, e il rispetto della memoria di tutti coloro che in quelle guerre erano morti. Non li si poteva ignorare, in un Paese che da quelle guerre era uscito distrutto, e neppure elogiare come solitamente si fa per chi cade combattendo, perché lo faceva per un regime dittatoriale. Questo rapporto difficile ha generato dei veri paradossi logici, i così detti “miti della sconfitta”, che in tempi recenti stanno degenerando in improbabili rivalutazioni sulla Seconda Guerra Mondiale italiana (corazzate britanniche colpite solo nella fantasia, etc...). Uno dei più famosi di questi miti è quello dei Leoni della Folgore
L’eroismo dei soldati italiani era sempre stato un argomento da circolo reduci, e parecchi rapporti dell’intelligence britannica confermano come la Folgore fosse considerata (perché lo era) un’unità d’élite, ma almeno inizialmente non se ne parlò mai apertamente – appunto nella giovane repubblica si tentava di non cadere nell’elogio di quanto fatto dalle forze armate sotto Mussolini – fino all’ottobre del 1967, 25° anniversario della battaglia di El Alamein. Epoca, settimanale della Mondadori tra i più diffusi del periodo, dedicò la copertina agli “eroi di El Alamein” ed un articolo a firma di Livio Pesce. Ed è qui che compare una delle leggende ancora oggi più dure a morire: l’elogio di Churchill. «Dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore.», ecco la frase che il Pesce accompagna alla didascalia “discorso alla Camera dei Comuni del Primo Ministro Churchill, 21 novembre 1942”. Da allora questa celebre frase è riportata più o meno dappertutto quando si parla di El Alamein, e spunta ciclicamente fuori ad ogni anniversario in tantissimi articoli commemorativi. E dato che avevamo un po' di tempo libero, abbiamo deciso di cercarne le sue tracce
Su Google UK non ne abbiamo trovato traccia, bizzarro ma comunque non troppo strano. Decidiamo quindi di ricorrere alle fonti originali. Per fortuna gli atti del Parlamento di Londra sono online, basta cercare la seduta del 21 novembre 1942. Scopriamo così che non ci fu nessuna sessione della Camera dei Comuni quel giorno, l’ultima risultava essere quella del 19 novembre e la successiva il 24[27]. La cosa iniziava a puzzare di bufala. Abbiamo quindi provato a cercare i discorsi tenuti da Churchill nel 1942, o anche negli anni successivi, ma non risulta alcuna menzione della Folgore[28]. Abbiamo quindi provato con il Churchill Archive[29], niente. L'ultima spiaggia è stata l'archivio della BBC, ma anche qui zero[30]. Ormai nessun dubbio: è una bufala. Per quanto esistano le testimonianze di chi visse quei giorni che ci danno conferma della stima che le truppe britanniche avevano nei confronti dei soldati italiani, la frase di Churchill è frutto di fantasia esattamente come quella di Rommel “ll soldato tedesco ha stupito il mondo, il bersagliere italiano ha stupito il soldato tedesco” (spoiler: anche questa è una bufala).
FONTI E BIBLIOGRAFIA
[1] Filone di Alessandria, De Legatione ad Gaium, 22[2] La Repubblica, 25 giugno 2010[3] La Repubblica (pagina locale Napoli), 10 giugno 2016[4]Svetonio, Vita di Caligola, LV[5] Cassio Dione, Historia Romana, LIX, 14, 7[6] Michael Collins, St.George and the Dragons: the Making of English Identity, Fonthill Media, 2018 ; Jonathan Good, The cult of St.George in Medieval England, Boydel Press, 2015[7] Molte città italiane ed estere hanno adottato in quel periodo una bandiera identica, o simile, a quella genovese (la croce rossa in campo bianco era l'emblema dei crociati)[8] La Stampa, 12 luglio 2021[9] Lilio Gregorio Giraldi, De Re Nautica, 6[10] Scipione Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, 65[11] Giovan Battista Pio, In Carum Lucretium poetam Commentarii, Libro VI, CLXXVII[12] Flavio Biondo, Roma Ristaurata et Italia Illustrata, 238[13] Chiara Frugoni, Medioevo sul naso: occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Laterza, 2004[14] M. A. Carême, Le pâtissier royal parisien ou Traité élémentaire et pratique de la pâtisserie ancienne et moderne, Paris: J.-G. Dentu, 1815[15] J. J. Rousseau, Les Confession, Livre VI, p. 266[16] V. Campion-Vincent – C. Shojaei Kawan, Marie-Antoinette et son célèbre dire: deux scénographies et deux siècles de désordres, trois niveaux de communication et trois modes accusatoires, “Annales historiques de la Révolution française”, n. 327, gennaio-marzo, 2002, pp. 29-56[17] Dai un occhio qui per scoprire perché anche questa è una bufala. [18] Giusto per fare qualche esempio, abbiamo R. De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno, Roma, 2013 e P.I. Armino, Il fantastico regno delle Due Sicilie. Breve catalogo delle imposture neoborboniche, Laterza, Bari-Roma, 2021[19] https://www.queryonline.it/2021/07/15/il-mito-delle-due-sicilie-e-le-bugie-neoborboniche-alla-prova-della-storia/[20] G. De Crescenzo, Le industrie del Regno di Napoli, Grimaldi, 2002, p. 168[21] Visite a l’Exposition Universelle de Paris en 1855, Librairie de L. Hachette et C., Parigi, 1855, p. 11.[22] Archivio di Stato di Napoli (ASNa), Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio, fascio 246, Mostra industriale[23] Exposition des produits de toutes lés Nations. Catalogue Officiel, Parigi, E. Panis Éditeur, 1855, p. 512 e Notices sur les produits des États Pontificaux a l’Exposition Universelle par Ch. de Montluisant, Imprimerie Bailly, Divry et C., Parigi 1855, pp. 92 e ss.[24] ASNa, Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio, fascio 246, lettera di Luii Cito dei Marchesi Cito, al ministro degli Esteri Carafa[25] Concours agricole universel de Paris en 1856. Liste générale des récompenses décernées par les Jurys, Parigi, Imprimerie impériale, 1856, p. 85
[26] http://www.storiainrete.com/churchill-e-i-leoni-di-el-alamein-breve-storia-di-un-apocrifo/
[27] https://api.parliament.uk/historic-hansard/sittings/1942/nov/19
[28] https://api.parliament.uk/historic-hansard/people/mr-winston-churchill/1942
[29] https://www.chu.cam.ac.uk/archives/online-resources/
[30] https://www.bbc.co.uk/archive